Archivio mensile:Maggio 2024

Inferno e solitudine – Joseph Ratzinger

“Quando un bambino si trova obbligato ad attraversare un bosco da solo, in una notte oscura, è preso dal terrore, anche se gli è stato dimostrato nella maniera più convincente che non c’è assolutamente nulla di cui debba temere. Nel momento in cui si trova solo nelle tenebre, e sperimenta così radicalmente il senso della solitudine, insorge in lui la paura, l’autentica paura dell’uomo, che non è paura di fronte a qualcosa, bensì paura e basta. La paura di fronte a qualcosa di determinato è ín fondo innocua: può essere scacciata togliendo di mezzo l’oggetto che la provoca. Tanto per fare un esempio, quando uno ha paura di un cane che morde, si fa presto a rimediare legando il cane alla catena. Nel caso nostro, invece, ci imbattiamo in qualcosa di ben più profondo: l’uomo, allorché finisce nell’estrema solitudine, non trema di fronte a qualcosa di determinato, che può essere eliminato; prova invece il terrore della solitudine, avverte l’aspetto inquietante e il senso di essere abbandonato propri della sua stessa condizione, non superabili per via razionale. Aggiungiamo ancora: quando uno deve vegliare un morto da solo e di notte in una stanza, avvertirà pur sempre la sua situazione con una certa inquietudine, anche se non vuole ammetterlo ed è in grado di convincersi razionalmente che le sue sensazioni sono prive di oggetto. Di per sé, egli sa benissimo che il morto non può fargli assolutamente nulla e che la sua situazione sarebbe probabilmente assai più pericolosa se la persona che veglia fosse ancora viva. Ciò che qui affiora è un tipo completamente diverso di paura: non è la paura di fronte a qualcosa, bensì la sinistra angoscia della solitudine in sé, nell’essere solo con la morte, l’essere-abbandonato dell’esistenza.
Dobbiamo ora chiederci: come è possibile vincere tale paura, se la prova dell’inconsistenza del pericolo fallisce? Ebbene, il bambino sarà libero dalla sua paura nel momento in cui troverà una mano che stringa la sua e lo guidi, quando sentirà una voce che gli parli; nel momento, quindi, in cui sperimenterà la compagnia di una persona che gli vuole bene. E anche colui che si trova solo col morto, sentirà sparire la paura non appena un’altra persona sia con lui, non appena avverta la vicinanza di un `tu’. In questo superamento della paura si rivela allo stesso tempo, di nuovo, la sua natura: come essa sia il terrore della solitudine, l’angoscia di un essere che può vivere solo insieme con altri. La vera paura dell’uomo può essere superata non con l’intelletto, bensì soltanto grazie alla presenza di una persona che gli voglia bene.
Dobbiamo approfondire ulteriormente il nostro interrogativo. Se ci fosse una solitudine in cui nessuna parola di un altro potesse più penetrare a cambiare la situazione, se si verificasse un abbandono talmente profondo da non permettere più ad alcun ‘tu’ di raggiungere chi è abbandonato, avremmo allora uno stato di vera e totale solitudine, quello stato spaventoso che il teologo chiama ‘inferno’. Che cosa significhi questa parola, lo possiamo esattamente definire a partire da quanto abbiamo detto: essa denota una solitudine in cui non penetra più la parola dell’amore e che costituisce quindi l’autentica situazione di esistenza abbandonata. A questo proposito, a chi non viene in mente come poeti e filosofi del nostro tempo esprimono l’opinione che, in fondo, tutti gli incontri fra uomini s’arrestano alla superficie, sicché nessun uomo ha accesso alla vera profondità dell’altro? Nessuno, quindi, può realmente raggiungere l’intimo dell’altro; ogni incontro, per bello che sembri, si limita in sostanza ad anestetizzare l’insanabile ferita della solitudine. Nel più profondo della nostra esistenza, perciò, abiterebbe l’inferno, la disperazione: la solitudine, insomma, che è tanto ineluttabile quanto raccapricciante. È noto come Sartre abbia costruito suquest’idea tutta la sua antropologia. Ma anche un poeta in apparenza così conciliante e sereno come Hermann Hesse lascia trapelare, in fondo, gli stessi pensieri:

È strano camminare nella nebbia!
Vivere vuol dire esser soli.
Nessun uomo conosce l’altro:
ognuno è solo!

In effetti, una cosa è certa: c’è una notte nel cui abbandono non scende alcuna voce; c’è una porta per la quale possiamo passare esclusivamente da soli: la porta della morte. Ogni paura del mondo è, in definitiva, paura di questa solitudine. Si capisce allora perché l’Antico Testamento abbia una sola parola per indicare sia gli inferi sia la morte: la parola She’ôl. In fondo, per esso le due situazioni sono identiche. La morte è la solitudine, semplicemente. Ma quella solitudine in cui nemmeno l’amore riesce più a penetrare, quella è davvero l”inferno’.

Siamo così tornati nuovamente al punto di partenza, all’articolo di fede che afferma la discesa di Gesù agli inferi. Questa frase ci conferma quindi che Cristo ha varcato la soglia della nostra ultima solitudine, calandosi con la sua passione in questo abisso del nostro estremo abbandono. Là dove nessuna voce è più in grado di raggiungerci, lì egli è presente. Con ciò l’inferno è vinto, o – per essere più esatti – la morte, che prima era l”inferno’, ora non lo è più. Nessuna delle due realtà è più la stessa di prima, perché al centro della morte c’è la vita, perché l’amore abita ora al centro di essa. Soltanto la chiusura in se stessi, voluta di proposito, è ora l”Inferno’, o – per dirla con la Bibbia – la seconda morte (per esempio, Ap 20,14). Il morire, invece, non è più la via che porta alla solitudine glaciale, le porte dello She’ól sono state sfondate. Io credo che a partire da qui si possono comprendere le immagini dei Padri, a prima vista di sapore così mitologico, che ci parlano di Gesù che ha fatto uscire i morti, di apertura delle porte; e diventa comprensibile anche quel testo, apparentemente così mitico, del vangelo di Matteo, dove si afferma che alla morte di Gesù si sono aperti i sepolcri e sono risuscitati i corpi di molti santi (Mt 27,52). La porta della morte resta aperta, da quando nella morte abita la vita: l’amore…”

[J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo]

Il “più brutto degli uomini” di Nietzsche ha ucciso il Samaritano: il dottore della legge era lui

Tutti hanno sentito parlare del passo della Gaia Scienza in cui si proclama che “Dio è morto”, ma bisogna aver letto lo Zarathustra per sapere chi davvero – secondo Nietzsche – l’avrebbe ucciso.

È nella parte quarta di “Così parlò Zarathustra”, mentre cerca “l’uomo che chiede aiuto” e non lo trova da nessuna parte, che il saggio ha quest’incontro che lo fa rabbrividire: in un luogo di morte incontra una figura umana da cui, per ribrezzo e pudore, distoglie lo sguardo. È “il più brutto degli uomini”, che gli presenta un enigma: cos’è la vendetta contro il testimonio?

La vendetta contro il testimonio è proprio quell’uomo: l’assassino di Dio.

Perché il più brutto degli uomini ha ucciso Dio? Zarathustra lo sa: “non sopportasti colui che vedeva te — che ti vedeva sempre ed oltre, o il più brutto tra gli uomini!” E infatti l’uomo conferma:

“Egli doveva morire: Egli vedeva con occhi onniveggenti, vedeva nelle profondità e nei segreti moti dell’uomo, vedeva in lui tutta la vergogna e la bruttezza nascosta.
La sua compassione non conosceva il pudore: egli s’insinuò negli angoli più sudici.
Quel curioso, quell’importuno, quel pietoso per eccellenza doveva morire.
Egli vedeva sempre me: e io volli o vendicarmi d’un tale testimonio — o non viver più.
Quel Dio che vedeva tutto, anche l’uomo: quel Dio doveva morire!”

È a causa della sua compassione che Dio è morto, e colui di cui ha avuto compassione lo ha ucciso. Il più brutto degli uomini non l’ha fatto in nome della libertà, ma della solitudine: non vuole che alcuno lo guardi, che alcuno sappia quant’è brutto! Andrà a vivere da solo in una spelonca, dove nessun uomo possa aver pietà di lui.

Il più brutto degli uomini loda Zarathustra per il suo pudore: vedendolo è stato tentato ad avere pietà, ma è arrossito e si è indotto a non vedere. Da qui possiamo partire per vedere come questo dialogo sia fondamentalmente un rovesciamento della parabola del Buon Samaritano, e al contempo una sua convincente chiave interpretativa!

Pensateci: quando a Gesù un dottore della legge chiede chi sia il suo prossimo che dovrebbe amare, Gesù racconta questa parabola in cui c’è un uomo miserabile, lasciato per strada mezzo morto. Passano altri due uomini, lo vedono e vanno oltre. Passa anche un samaritano, un suo nemico (se immaginiamo l’uomo come israelita) lo vede ed ha compassione di lui.

Alla fine del racconto Gesù rilancia al dottore la domanda, ma la rovescia: chi è il prossimo dell’uomo mezzo morto? Chi ha avuto compassione di lui, è la risposta del dottore della legge, e viene invitato a fare lo stesso. C’è una sottile ironia in questo rovesciamento, un pungolo per l’orgoglio del dottore della legge: non gli viene chiesto di immedesimarsi fin da subito nel samaritano, semmai di diventarlo. Gli viene chiesto di immedesimarsi, di capire che lui è l’uomo mezzo morto, e l’uomo che dovrebbe amare come se stesso, il suo prossimo, non è il bisognoso, ma colui che lo vede ed ha compassione di lui!

Quanto è difficile sopportare la compassione altrui! Quanto è umiliante lasciarsi aiutare, figuriamoci da uno della tribù nemica! Per farlo occorre riconoscere di essere mezzi morti, di essere “il più brutto degli uomini”. Occorre permettere a qualcuno di vedere ciò che ci provoca vergogna.

Il dottore della legge viene chiamato a diventare come il samaritano, ma non è lui il samaritano. È chiaro che in realtà il samaritano è Gesù, che ha compassione per primo, la cui compassione sarà rifiutata dai dottori della legge che non riconoscono di averne bisogno (“Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane”! Gv 9,41) e non sopportano lo sguardo compassionevole che rivela il loro bisogno di salvezza. I dottori della legge e i farisei, di fatto, uccideranno il samaritano. Il più brutto degli uomini, colui che non vuole avere compassione, sarà lui a mettere Cristo in croce.

Ora Nietzsche questo poteva anche averlo capito, o forse no. Quello che non ha capito è cosa sia davvero la compassione di Dio, e fino a che punto penetri in profondità: essa va molto oltre la vergogna. Nello Zarathustra l’impudica compassione di Dio è descritta chiaramente come quella di un grande padre che si china sul figlio disgraziato, che si impietosisce e gli fa l’elemosina, per poi lasciarlo nella stessa condizione. Nell’Anticristo riesce a gettare lo sguardo più in là, fino a rivelare:

“Dio in croce. Si continua ancora a non comprendere lo spaventoso mondo di pensieri nascosto in questo simbolo? Tutto quanto soffre, tutto quanto è appeso alla croce, è divino… Noi tutti siamo appesi alla croce, quindi noi siamo divini (…) Il cristianesimo ha preso le parti di tutto quanto è debole, abietto, malriuscito.”

ma senza avere abbastanza fede per comprendere fino a che punto Dio rendeva divino l’uomo sofferente: non rendendo vile il divino, ma rendendo veramente e propriamente divino ciò che è giudicato vile. Forse non poteva, perché nella teologia protestante che aveva conosciuto da fanciullo Gesù subisce la punizione di Dio, viene davvero abbandonato e maledetto da Dio perché fa proprio il destino dei dannati, per poi ricevere la grazia: la croce è una negazione temporanea della sua divinità e non la massima manifestazione della sua gloria. Ma la realtà è che la sua compassione si è spinta molto oltre l’elemosina della grazia. Gesù ha amato così tanto quelli che l’hanno messo in croce, che per loro, senza mai cessare di essere unito al Padre, si è reso:

“Disprezzato e reietto dagli uomini,
uomo dei dolori che ben conosce il patire,
come uno davanti al quale ci si copre la faccia,
era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.”

Is 53,3

Gesù ha permesso al più brutto degli uomini di colpirlo e condannarlo perché fosse il suo il volto più brutto, quello da cui si distoglie lo sguardo. E così facendo ha dato la possibilità a chi si lascia guardare di scoprire nel proprio volto una bellezza segreta, quando le croste vengono portate via dal sangue divino di chi è stato colpito per aver osato vedere. Ha avuto compassione di lui fino a prendere su di sé tutta la sua bruttezza e il disprezzo a lui tributato, ma è proprio questo a renderlo bello e santo nella risurrezione. Non si è vergognato, il più bello dei figli dell’uomo, di prendere per sé il volto del più brutto degli uomini, e così lo ha innanzato nel nome che è al di sopra di ogni altro nome.

Forse è vero che “tutti coloro che creano sono duri: ogni grande amore è più alto della lor compassione”, perché la compassione di un padre che rimane in piedi davanti al figlio steso a terra conserva ancora una dolorosa distanza. Ma l’amore di Cristo è un lasciarsi trascinare a terra, perché l’altro possa alzarsi insieme a lui al Cielo.

Il più brutto degli uomini, quando conoscerà il risorto, saprà che attraverso la sua orribile bruttezza è stato reso divino, è stato reso tutt’uno con Cristo. Ha superato se stesso, ha superato l’uomo, e può ora vivere della vita di Dio.

Gli viene infatti chiesto: “Va’, e anche tu fa’ lo stesso”.

Presentazione di “Dov’è tuo fratello?” a Sesto Fiorentino

Nel video la prima presentazione del libro, che si è svolta sabato 11 Maggio al convento di Santa Lucia alla Castellina (Sesto Fiorentino).