Dov’è tuo fratello? Trailer

Dov’è tuo fratello?” è appena stato pubblicato. Se volete farvi un’idea, qua sotto trovate il trailer, mentre su Amazon potete già comprare il libro.
Sentitevi liberi di commentare qui e su youtube per domande e pareri anche sul solo trailer! In attesa che leggiate anche il libro e possiate dirmi cosa ne pensate sull’intero lavoro!

Presentazione di “Dov’è tuo fratello?” a Sesto Fiorentino

Nel video la prima presentazione del libro, che si è svolta sabato 11 Maggio al convento di Santa Lucia alla Castellina (Sesto Fiorentino).

La fede cristiana come filosofia della libertà – Joseph Ratzinger

“La fede cristiana in Dio significa piuttosto che le cose sono un essere-pensato da una coscienza creatrice, da una libertà creatrice, e che tale coscienza creatrice, che sostiene tutte le cose, ha lasciato il pensato alla libertà del proprio autonomo essere. In questo, la fede supera ogni forma di puro idealismo. Mentre questo, come abbiamo rilevato, spiega tutto il reale come contenuto di un’unica coscienza, per la visione cristiana ciò che sostiene è una libertà creatrice, che pone a sua volta il pensato nella libertà del proprio essere, sicché esso è, da un lato, il pensato di una coscienza, e tuttavia, dall’altro, ero essere a sé stante.
Risulta così chiarito anche il nucleo centrale del concetto di creazione: il modello, sulla cui falsariga la creazione va intesa, non è l’artigiano, bensì lo Spirito creatore, il Pensiero creatore. Viene poi in luce come l’idea di libertà sia la caratteristica della fde cristiana in Dio rispetto a ogni tipo di monismo. Al principio di tutto l’essere essa non pone una qualsiasi coscienza, bensì una libertà creatrice, che a sua volta crea altre libertà. Sotto questo aspetto si potrebbe indicare, ben a ragione, la fede cristiana come una filosofia della libertà. Per essa la spiegazione della realtà nel suo complesso non si trova in una coscienza universale o in una indifferenziata materialità; al vertice sta piuttosto una Libertà che pensa e, pensando, crea altre libertà, e in questo modo fa della libertà la forma strutturale di tutto l’essere.

(…)

Se, però, il Logos di tutto l’essere, l’Essere che tutto sostiene e abbraccia è al contempo coscienza, libertà ed amore, va da sé che la suprema legge del mondo non è la necessità cosmica, bensì la libertà. Le conseguenze sono di vastissima portata. Ne viene, infatti, che la libertà appare, per così dire, come la struttura necessaria del mondo; il che comporta, a sua volta, che si può pensare il mondo soltanto come inafferrabile, che esso deve essere incomprensibilità. Infatti, se il supremo punto di costruzione del mondo è una Libertà, la quale sostiene, vuole, conosce e ama l’intero mondo come libertà, ciò vuol dire che, con la libertà, appartiene essenzialmente al mondo anche l’imprevedibilità a essa inerente. L’imprevedibilità è una tipica implicanza della libertà; ora, se le cose stanno così, il mondo non potrà mai venir ridotto a pura logica matematica. Infatti, insieme con l’originalità e la grandiosità di un mondo che è caratterizzato dalla struttura della libertà, è però dato anche l’oscuro mistero del demoniaco che in esso incontriamo. Un mondo voluto e creato sotto il segno del rischio della libertà e dell’amore, non è mai pura matematica. In quanto spazio dell’amore, è anche spazio per il gioco delle libertà, e implica il rischio del male. Esso osa il mistero delle tenebre per amore della luce più grande, luce che la libertà e l’amore sono.”

[J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo]

L’arrivo di Anne – Il Cefaloforo

All’inizio non ci fecero caso, pensando che fosse qualche animale o qualche ramo sbattuto dal vento, ma si resero presto conto che si trattava di un suono che non sentivano da tanto tempo, e che ormai non si sarebbero più aspettati di udire.

Qualcuno stava bussando alla porta del piccolo eremo.

Zacharias agguantò Denis per le spalle e gli tappò la bocca il più in fretta che poté, ricevendo un’occhiata di disappunto. Thomas tremava. Annuì nervosamente e, guardando negli occhi il ragazzino, accennò un sorriso. Poi sussurrò.

“Presto, nascondetevi.”

Bussavano ancora.

Si prese tutto il tempo per avvicinarsi alla porta, non fece alcun rumore. Magari il visitatore si sarebbe stancato prima di ricevere una risposta. Magari era solo un picchio un po’ stordito. Si domandò se i piccoli corvi stessero bene.

Bussavano ancora. Ormai aveva la mano sulla porta. Gli prudeva tutto.

“C… Chi siete?”

Bussavano ancora.

Si guardò alle spalle. Non si vedevano, erano stati bravi. Tolse il paletto.

C’era silenzio.

Aprì lentamente la porta, l’aria fredda gli gelò il sudore sulle braccia e sul volto., ma subito si sentì bruciare per l’imbarazzo.

“Anne…?!”

La bambina stava ritta, immobile. Gli occhi erano fissi sui suoi, ma privi di vitalità. Aveva pianto.

“Che ci fai qui? E perché sei sola?”

“Anne!” Gridarono quasi all’unisono gli altri due, e galopparono fino alla porta. Quindi ammutolirono tutti insieme ad Anne.

Il primo a scrollarsi da quello stupore fu Denis, che sgusciò tra la porta e il corpo di Thomas per buttarsi in ginocchio davanti a lei. Chinò il capo, batté il pugno contro il petto e disse:

“Dominus, non sum dignu ut entret sub tectus meus, sed tanto dic verbum et sanabitum anima mea”

Per tre volte.

La stessa cosa fece Zacharias, rimanendo dentro, ovviamente scandendo correttamente le parole latine. Thomas guardò prima l’uno, poi l’altro. Come se si stesse chiedendo se fossero davvero lì.

“Thomas, il rituale.” sussurrò Zach “Pensavo volessi che continuassimo a fare come abbiamo sempre fatto.”

“Ma… Ma se… Facciamo… Significa che è successo qualcosa di brutto?”

Zach non poteva saperlo, per cui cercò dentro di sé quel briciolo di coraggio che gli rimaneva e tornò a scrutare gli occhi silenti della bambina. Era successo qualcosa di molto brutto.

“È colpa nostra…?” Biascicò. La bambina non mosse la testa. Forse mosse le labbra, ma non la testa.

“Lo sai come rispondiamo a questa domanda” lo fulminò Denis, pur senza muoversi dalla sua posizione. “Segui il rituale!”

“G… Giusto.” Si inginocchiò, ma senza staccare lo sguardo dagli occhi azzurri della bambina. Quindi prese fiato:

“Domine, non sum… Perdonami, Anne!” e singhiozzò. E pianse.

La bambina gli toccò i capelli, e lui si calmò. Tirò su col naso e chiese a Denis:

“Portala a prendere un bicchiere d’acqua.”

“Ma sta a te farlo! È il più anziano che lo deve fare.”

“Lo so. Ma tu meriti di farlo più di me, e sei già stato tu ad iniziare il rituale.”

“Ma io non so il latino…” protestò, sinceramente spaventato.

“Non importa, tanto non lo sa neanche lei. Il Signore non si arrabbia mica, e tu sai cosa significavano le formule.” E si scansò da davanti alla porta.

Denis annuì. Si alzò in piedi e fece ad Anne un grande sorriso, il migliore che potesse venirgli. Quindi le disse:

“La porta è aperta per te, entra pure. Poi se sei felice di essere qui devi dire: “Pace a questa casa e a chi vi abita.” Se sei arrabbiata perché sei qui devi dire invece: “Fino a quando griderò, o Signore, senza che tu mi ascolti?” Non ti preoccupare, vanno bene tutte e due le cose, e va bene anche se non vuoi entrare.” La precedette e le fece un inchino.

La bimba finalmente si mosse e varcò la soglia, quindi lo guardò senza dire niente.

Zacharias simulò un colpo di tosse:

“Lo sai che non parla…”

Denis arrossì.

“Basta che annuisci con la testa. Su e giù per la pace, sinistra e destra per il grido.”

Lei annuì. Thomas singhiozzò di nuovo, rumorosamente.

Allora Denis corse a riempire un bicchiere d’acqua dal secchio, e subito lo porse ad Anne, che lo strinse con entrambe le mani.

“Bevi, Anne. Tu porti Gesù in questa casa, e in cambio tutto quello che abbiamo è tuo, anche se a volte un bicchiere d’acqua è tutto quello che c’è. Beata te che hai sete di giu… No, era l’altra” vide che Zach gli sorrideva, e ridacchiò “Dovevo dire che grazie a te, noi non abbiamo più sete. Questo è il rituale dei nostri padri, quelli che sono morti… Guarda che puoi bere eh!”

Anne si portò il bicchiere alle labbra e bevve lentamente, quindi lo restituì a Denis, che subito lo posò a terra.

“Mi è venuto male, il rituale” brontolò “Se non hai capito… Adesso questa è casa tua, sei nostra sorella e per ognuno di noi sei più importante della stessa vita. E questo non lo dico perché era il rituale, ma perché è così. Qualsiasi cosa è successa, non sarai sola mai più.”

La abbracciò, e strinse forte. Poi si staccò e lasciò che Zach facesse lo stesso, ma Thomas non si mosse.

“Thomas…” lo chiamò Denis, sorpreso e preoccupato, Ma la bambina gli toccò la fronte con la mano e gli sorrise, poi corse di fuori. Si fermò davanti a Thomas, che ancora stava in ginocchio e aveva tutta la faccia bagnata di lacrime. Lo guardò bene e lo abbracciò. Nessuno riuscì più a dire una parola fino a sera.

[Il Cefaloforo]

La doppia vicarietà di Gesù Cristo: vicario di Caino, vicario di Abele

Non rappresentazione vittimaria ma nuovo Adamo, tutto in tutti

Perché Dio si è fatto uomo? Questo si chiedeva Sant’Anselmo quando arrivò a formulare la risposta che sintetizziamo oggi come “soddisfazione vicaria”, una risposta tanto razionalmente pregnante quanto esistenzialmente pericolosa: Cristo si sarebbe incarnato per soddisfare la giustizia divina, per pagare dunque il debito infinito che l’uomo aveva con Dio, debito che poteva pagare soltanto lui unendo in sé la realtà dell’uomo (che in quanto colpevole del peccato aveva un debito da pagare) e la realtà di Dio (che, solo, avrebbe potuto offrire un bene pari o superiore al male infinito rappresentato dal peccato).

Perché una tale formulazione era pericolosa? Perché di fatto risolve tutto tra Dio e Dio, l’uomo si vede sostituito da una persona divina nel risolvere il problema della colpa, e non gli rimane da fare altro che accettare la sostituzione oppure no, lasciare che Cristo paghi per lui oppure rimanere debitore: tutto si compie in Cristo, e noi veniamo in qualche modo passivizzati. Naturalmente Anselmo non voleva arrivare a questa conclusione, ma non fa meraviglia che da questo punto di partenza la teologia protestante abbia potuto formulare una cristologia della sostituzione penale, in cui Cristo subisce l’ira divina come massimo peccatore, cade disperato nell’oscurità della morte per pagare questo debito e ritrova la luce nella Risurrezione. Non fa meraviglia che altri riformatori abbiano poi esasperato la passività degli uomini rispetto al Dio-Uomo al punto da predicare l’esistenza di una predestinazione alla dannazione. Conseguenza ultima non poteva che essere la riduzione all’irrilevanza della fede: se la salvezza è qualcosa che Cristo ha risolto una volta per tutte pagando il debito, il resto è contorno.

Eppure credo che ci sia qualcosa di estremamente importante nell’idea di Anselmo, che non possiamo permetterci di perdere: l’idea che il problema della giustizia sia un problema serio, che la giustizia vada, insomma, soddisfatta. E che non sia in potere dell’uomo soddisfarla del tutto, che possa farlo, insomma, solo unendosi a Cristo sulla croce.

Ciò che è necessario integrare è però la consapevolezza che la giustizia non è qualcosa che riguarda esclusivamente i diritti di Dio: se è vero che il peccato è contro Dio e gli toglie quanto è dovuto, è anche vero che ciò che è dovuto a Dio è l’amore, e che l’amore non inizia con un atto verso Dio “che non vedi”, ma nell’amore “del fratello, che vedi”. Il peccato offende infinitamente Dio, è vero, ma si esprime principalmente nell’assenza dell’amore e della giustizia tra gli uomini. Ognuno di noi non deve quindi soddisfare soltanto Dio, ma anche riparare il rapporto con il suo fratello, riconciliarsi, soddisfare il grido che invoca giustizia davanti a Dio.

“Il sangue di tuo fratello grida a te dal suolo!” Così Dio mette Caino di fronte al proprio peccato. E troppo spesso non notiamo come le Scritture (e soprattutto i profeti) siano piene di questo genere di grida: il grido dell’orfano, della vedova, dello straniero accusano Israele e Giuda davanti a Dio e ne meritano l’esilio. Ma Dio stesso viene accusato da questo grido implicitamente (da Qohelet: “ecco le lacrime degli oppressi e non c’è chi li consoli; dalla parte degli oppressori sta la violenza e non c’è chi li consoli”) ed esplicitamente (nei salmi imprecatori, ma anche in Abacuc: “Fino a quando, Signore, implorerò e non ascolti, a te alzerò il grido: «Violenza!» e non soccorri?”). Perché Dio, se è davvero giusto, non colpisce Caino? Perché, se è veramente buono, non restituisce la vita a chi, come Abele, è morto innocente? Troppo spesso siamo tentati di liquidare questo problema rifugiandoci nel fatto che, in virtù del peccato originale, siamo tutti peccatori, eppure nelle Scritture il grido è forte e chiaro e la risposta non soddisfa: persino un bambino potrebbe dimostrarvi che non siamo tutti peccatori allo stesso modo. Anzi, soprattutto un bambino.

Il Peccato è la ragione per cui tutti quanti siamo votati alla morte. Ma davanti alla morte, molti di noi con onestà possono riconoscere di aver meritato con le proprie azioni un tale destino, di avere anzi da pagare un debito ancora più grande. Alcuni di noi, però, questo prezzo l’hanno pagato e lo pagano per il peccato altrui: non hanno avuto il tempo o la forza di peccare personalmente, e muoiono per la colpa dei loro padri. Riuscite davvero a biasimarli se diventano peccatori anch’essi ribellandosi alla morte ingiusta, gridando a questo Dio che non si è affrettato a salvarli da quel dolore irrazionale e ingiustificabile? È forse una bestemmia il grido di Giobbe? È una bestemmia il grido dell’orfano, il grido della vedova, il grido dello straniero calpestati dai grandi d’Israele che divorano le carni di sacrifici iniqui? La loro impazienza può essere equiparata alla malvagità di Caino?

Se il grido non fosse legittimo, Dio non l’avrebbe accolto, come invece ha farlo. Là dove non c’era niente di nuovo sotto il sole, è venuto a visitarci un sole che sorge. Là dove il cieco nato soffriva per le conseguenze cosmiche del Peccato, si è manifestata la gloria di Dio. Là dove l’oppresso accusava Dio di stare dalla parte del violento, Dio ha voluto soddisfarlo prendendo nella sua carne la sorte a cui avrebbe voluto condannare suo fratello. Là dove arrivava il grido del sangue di Abele, Cristo Sommo Sacerdote ha portato un sangue dalla voce più eloquente (e più innocente!) di quello di Abele: il proprio.

Nell’orto degli ulivi Gesù sperimenta nella sua carne la violenza dell’istinto di sopravvivenza, il dolore della prospettiva del tradimento e della morte violenta, la pesantezza del calice che il Padre gli ha dato da bere: capisce bene che non è desiderabile soffrire e morire senza averlo meritato! Piange come il bambino che subisce violenza, supplica il Padre di salvarlo dalla morte. Sale sulla croce come agnello condotto al macello, senza macchia, condividendo la sorte di tanti innocenti schiacciati dalla malizia di uomini più grandi di loro. E sulla croce dà voce al loro grido, si rivolge al Padre per avere giustizia, con loro grida! Ma ecco che nella sua carne divina il grido è trasfigurato, ecco che Abele vede con occhi nuovi il fratello Caino, ecco che l’accusa diventa un’apologia:

“Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno!”

Cristo è quindi vicario di Caino, perché paga il prezzo che Caino ha meritato; è tuttavia anche vicario di Abele, perché donandosi ad Abele rinuncia insieme a lui a quella riparazione di cui Caino non sarà mai capace, lo libera dall’attesa angosciosa di una giustizia che tarda ad arrivare, per donargli la gioia della riconciliazione, di un abbraccio eterno che riconcilia chi era morto nel corpo e chi era morto nell’anima.

In Cristo sulla croce, in Cristo risorto viene abbattuto il più duro dei muri di separazione: quello tra buoni e cattivi, quello tra vittime e carnefici. In Cristo nuovo Adamo, la perfetta comunione è l’esito di un doppio dono: quello del perdono e quello del saper perdonare.

E così sappiamo di essere peccatori, quando vediamo in trasparenza come l’offesa fatta al più piccolo dei nostri fratelli è un colpo inferto a Cristo, e nel suo sguardo docile ci scopriamo perdonati. E così sappiamo di essere innocenti, quando il colpo inferto alla nostra carne da qualcuno che non aveva alcun diritto di infliggerlo fa gridare l’Innocente nel nostro cuore: lo riconosciamo perché la giustizia che invoca è riconciliazione e perdono. Siamo davvero innocenti, perché guardando il Crocifisso siamo sicuri che chi può salvarci sa quanto fa male morire, e non ci lascia soli. Siamo davvero perdonati, perché quell’uomo crocifisso si è fatto carico non soltanto di placare la giustizia divina, ma di dare la gioia eterna al fratello che abbiamo offeso.

Abbiamo lavato le nostre vesti nel sangue dell’Agnello.

La speranza della pietra – Il Cefaloforo

“Anche oggi stai scrivendo, Zach? Sono ancora quei sogni di cui mi parlavi?”

Zach alzò il capo dallo scrittoio e sorrise.

“Sì Denis. Ma presto mi metterò a fare qualcosa di più utile, lo prometto.”

“Lo dici sempre, come se ti vergognassi. Ma non mi pare che il fratello Thomas ti abbia mai rimproverato.”

“Non lo ha fatto, no. Ma mi chiedo… Se in fondo non sia una sciocca vanità.”

“Mi piacciono le tue storie su Adamo ed Eva. E anche al Padre sarebbero piaciute molto.” Il fanciullo si mise a sedere sullo sgabello, e guardò ammirato la grafia insicura che copriva la pergamena “Anche io stavo imparando a scrivere…”

“Vuoi che ti insegni?”

“No.” rispose secco “Sei tu quello che scrive.”

“Potremmo anche essere in due. E poi certamente anche fratello Thomas sa scrivere.”

“Ma lui non lo fa. Tu lo fai, tu sei quello che scrive.”

Zach lo guardò perplesso: era sorprendentemente serio. Sentì nel cuore una strana malinconia e finì di scrivere la frase che aveva lasciato a metà.

“Secondo te non è vanità?”

“No, non è vanità.” sentenziò Denis.

“Io… Ho osato pensare di poter lasciare queste pagine alla Chiesa, perché si ricordi chi è. Sento che non potrò mai fare altro che lasciare questo dono, e mi piacerebbe che qualcuno leggendo, un giorno… Beh, potesse conoscere questa speranza segreta, che sopravvive anche quando la violenza del mondo abbatte la casa che i tuoi padri avevano faticato tanto per costruire. Ma forse la mia è solo arroganza, il sogno di un ragazzino abbandonato che vuole sentirsi importante.” Sospirò, ed aggiunse sopra l’ultima parola una lettera che si era perso per strada.

“La speranza di Adamo ed Eva…” mormorò Denis, meditabondo.

“Tu mi capisci, Denis? Sai cos’è questa speranza?”

Denis serrò le labbra, ma lo guardò fisso negli occhi.

“No?”

“Io lo so, ma solo tu lo sai dire. Scrivila.”

Zacharias ridacchiò.

“È un’antica speranza, Denis, non sono certo il primo…”

“Lo so, ma devi scriverlo ancora. Noi siamo la pietra.”

“La pietra?”

“La pietra scartata, quella che Adamo raccoglie sulla riva, perché il mare non la vuole. Con quella pietra farà quello che deve fare.”

[Il Cefaloforo]

Se il senso della vita è il patire di Dio: la risposta evangelica a Qohelet e i filosofi

εις εκ της Τριάδος έπαθε / Unus ex Trinitate passus est

Monaci Sciti, VI secolo.

Nella Fides et Ratio Giovanni Paolo II attribuisce molto giustamente alla filosofia il fine di aiutare a comprendere il senso della vita, che tramite la rivelazione sappiamo essere il Verbo di Dio, Gesù Cristo che è la Sapienza divina.

E indubbiamente è così, e tuttavia l’interpretazione che anche i filosofi danno generalmente a tali espressioni è pericolosamente teoretica, al punto da coincidere con ciò che già prima di Cristo i filosofi avevano riconosciuto essere il fine ultimo dell’esistenza: la felicità della contemplazione, la partecipazione all’agire divino che è conoscere e amare. Un cristiano sa in più che è la conoscenza e l’amore del Figlio verso il Padre e del Padre verso il Figlio, e tuttavia sarebbe estremamente avvilente per il mistero cristiano fermarsi qui.

Perché il senso della vita di un cristiano non è ancora l’agire di Dio, e dire che ci sia un paradiso dove il Figlio gioca tutto il tempo con il Padre non risponde alla domanda vera, ovvero il perché di quello che succede da quando nasciamo a quando finalmente parteciperemo pienamente a quel gioco.

E allora è necessario scendere sulla terra e guardare a quello che la filosofia, che può conoscere solo le cose generalissime ed eterne, non può conoscere, e che eppure “è tutto l’uomo” [Qo 12, 13]. Occorre chiedersi daccapo “Che cos’è la verità?” Ora Qohelet, sopra citato, si è già posto questa domanda e ha concluso che non può esserci per l’uomo un senso, una verità sotto il sole che possa andare oltre alla rara concessione che Dio fa a chi lo teme; ovvero si ricorda di essere uomo mortale e non Dio, ovvero poter giocare qualche momento senza preoccupazioni, ovvero agire senza uno scopo (poiché ogni scopo è vano), ovvero “mangiare e bere e godersi il frutto delle sue fatiche”, perché solo questa piccola cosa regge alla prova della morte, solo questa piccola cosa permette di vivere per vivere e non vivere per la morte, eppure anch’essa è vanità perché purtroppo non dura, e bisognerà tornare a non vivere per poter vivere quel momento quando Dio vorrà di nuovo, oppure morire del tutto.

In effetti l’unica risposta sensata rimane quella indicata da Giovanni Paolo II, ma da indirizzare verso il Verbo non è più il pensiero, ma la pazienza. Bisogna che questo verbo parli, che venga a cercarci, perché la ragione non può trovarlo. E ha parlato davanti a Pilato, tacendo.

Pilato infatti rivolge a Gesù quella tremenda domanda, e Gesù tace. Quale verità rimane agli ebrei che mettono in croce il presunto senso della loro esistenza, loro che dovrebbero avere Dio per Re, o almeno un re che possa far godere ad un popolo libero i frutti della Terra Promessa, e si trovano a confessare “il nostro re è Cesare?” Molto giustamente Pilato se ne prende gioco. Eppure quell’uomo tace. Il suo silenzio è la risposta, perché quell’uomo è Dio.

Qualche secolo dopo Agostino risolverà l’enigma di “Quid est veritas” mostrando che contiene le parole “Est vir qui adest”. Questa è la risposta, ma sarebbe ancora limitante ributtare il discorso sulla verità celeste, dicendo che è vero perché quell’uomo è il Logos. Il punto è che “è l’uomo che ti sta davanti” è la risposta a quella domanda in ogni momento. Come viene esplicitato nella parabola sul Giudizio Universale, il punto dell’incarnazione e della passione di Cristo è che Dio è l’uomo che ti sta davanti. Eppure in quella stessa parabola, come nella Croce, la comprensione di Dio viene ribaltata. Colui che i sapienti conoscevano come uno che puramente agisce, come principio attivo di ogni cosa, è Dio nel tuo prossimo eminentemente in senso passivo. Colui che aveva fame e a cui non hai dato da mangiare, non ha agito come Dio, né avrebbe potuto farlo: l’incarnazione non ha reso i poveri onnipotenti, non li ha resi nemmeno moralmente buoni! Eppure il povero patisce come Dio, anzi addirittura è Dio che patisce. La Verità è Dio che sceglie di patire anziché di agire. Il senso della vita non è più dunque anelare ad agire con Dio felice e beato, fare la sua volontà per salire in alto e farla in maniera più simile a lui, ma qualcosa che Qohelet non avrebbe potuto immaginare fosse divino: ciò a cui non aveva trovato risposta migliore che proclamare felici i morti e ancora di più i non nati: “Ecco le lacrime degli oppressi e non c’è chi li consoli; dalla parte dei loro oppressori sta la violenza, ma non c’è chi li consoli.” (Qo 4,1). Eppure proprio perché Dio ha scelto di patire, improvvisamente questo mondo terreno diventa significativo, improvvisamente ogni cosa acquisisce un senso e non è più vana, perché entra a far parte di quel patire. Ecco che l’uomo non è più un essere insignificante che deve avere timore di un Dio che può annientarlo con un cenno, ma il fine stesso di Colui che per definizione sembrava fine a se stesso. Il patire di Dio è il senso della vita dell’uomo, che grazie ad esso ottiene il privilegio di elevarsi a colui che soccorre Dio, a colui che con l’amore lo redime dal suo patire. Solo perché Dio patisce, l’uomo può finalmente amare come Dio, perché può amare Dio non come uno che assolutamente agisce, ma come uno che patisce. E solo chi lo ama, nel momento in cui lo ama, può davvero capire che Dio patisce, e perché patisce: è solo in quel momento che improvvisamente entra nel Regno di Dio, e persino il Dio che agisce non è più astratto né distante.

Leggi anche: La carità è distruttiva dello spazio pubblico

Una riforma per i bambini – Il Cefaloforo

“La lama del coltello staccò l’ennesimo ricciolo di legno dal picchetto, poi si fermò. Thomas alzò il capo verso Zacharias. Stava scrivendo, erano due giorni che non faceva altro che scrivere. Sorrise, ma poi si ricordò cos’aveva in mente.

“Zach, perdonami se ti distolgo da quello che stai facendo…”

Lui lo guardò e arrossì.

“Lo so, dovrei… Ti prego Thomas, ho quasi finito, poi vedrò di rendermi utile, lavorerò anche per…”

“Calmati Zach, non volevo rimproverarti. Volevo sapere cosa pensavi su una cosa.”

“Oh, certo, dimmi.”

“Io… Non riesco a togliermi di testa il pensiero che, ecco… Magari è stato tutto sbagliato, e il Signore non voleva che questo posto esistesse.”

Zach restò a fissarlo, lo stilo alzato a mezz’aria. Il suo silenzio non era d’aiuto.

“Voglio dire, prima della nostra riforma c’era la riforma di Citeaux, e una delle cose che i padri avevano deciso era di non accettare più oblati bambini, di non avere più scuole. E poi arrivano i nostri padri, e fondano questo posto pieno di bambini. Chi aveva ragione? I padri di Citeaux avevano ragione, sono pochi quelli che diventano pochi monaci se hanno vissuto come tali fin da bambini e…”

“Sì ma sono cose diverse” Zach si decise ad interromperlo “La nostra Regola è nuova, è stata scritta proprio per questo, per i bambini. Che non sono oblati, le nostre costituzioni vietano di prenderne! Qua entrano solo i bambini che il Signore ci manda, persone come me e te, che non hanno più padre né madre ma che il Signore raccoglie. Come fai a dubitare che sia una cosa buona che ci fosse una casa pronta per te? Se siamo vivi, è grazie a questo posto. Se non siamo dei pochi di buono, almeno, è per grazia di Dio che ha messo nel cuore del Padre e dei suoi compagni di fare quello che hanno fatto.”

Thomas tornò a guardare il suo picchetto e si strinse il labbro inferiore tra i denti.

“Lo so che è una grazia se sono vivo e libero.” Mormorò, e alzò di nuovo lo sguardo “Ma quando sono stato a Parigi… I cistercensi mi guardavano come se fossi ridicolo, la vergogna della famiglia… Poi torno qua e trovo… Non trovo più nessuno.”

“Nessuno?”

“Dai, sai cosa intendo!” Appoggiò coltello e picchetto e si afferrò con entrambe le mani la testa, che gli tremava “Se il Signore approvava la nostra riforma, perché ha lasciato che succedesse tutto questo? Forse è stato un errore, forse come dicevano a Parigi… Bambini cresciuti da altri bambini che non conoscono il mondo… E poi dici che non siamo oblati, ma quanti di noi se ne sono andati? Rimanevano quasi tutti, che altro può fare un ragazzo cresciuto in un monastero, che fuori non ha niente e nessuno? Credi che tutti fossero chiamati a professare i voti come hanno fatto?”

“Non è mica per questo che sono morti” Zach tornò a guardare la pagina, l’agitazione del confratello non lo turbava “La colpa è di chi impugna la spada, non di chi viene colpito, e dei nostri padri so che è per merito loro se non sono rimasto a marcire in quel fosso: se non è stato Dio a volerlo, chi altri? Il Signore deve avere un posto anche per noi, non tutti devono essere come i monaci di Citeaux o di Clairvaux.”

Thomas sospirò, e tornò a fare la punta al suo picchetto.

“Sei molto saggio per la tua età, Zach.”

“Ho solo due anni meno di te…” sbuffò “E a differenza tua, sono stato abbastanza a lungo là fuori per aver sentito certe cose sui monaci che ti hanno fatto vergognare…”

Thomas ridacchiò.

“Vedi però che mi dai ragione…”

“Alcune cose che hai detto sono vere, ad esempio che ad alcuni non avrebbero dovuto permettere di rimanere qui.”

“Ad esempio?”

Zacharias stava scrivendo, e si bloccò con lo stilo premuto sul foglio. Quando lo sollevò, aveva già lasciato una brutta macchia d’inchiostro, e ci si piegò sopra per tamponarla e soprattutto per nascondere il volto paonazzo.

“N-non parli di me, vero?”

“Thomas!” esclamò, dissimulando l’angoscia con una risata forzata “Non potrei mai pensare una cosa simile! Ma non… Non si parla male dei morti.”

Thomas lo guardò scettico.

“Certo che a volte sei strano… Mi chiedo come mai tu non abbia approfittato dei miei dubbi per convincermi che dovremmo andarcene.”

“Perché sono simile a te, e mi importa più della verità che di ottenere quello che vorrei. E che questo posto fosse una grazia di Dio non ci sono dubbi, io non ho dubbi. Sono grato ai nostri padri, anche se penso che non possiamo più rimanere qua.”

“La verità…” mormorò Thomas, dando un ennesimo colpo al picchetto “Spero che un giorno la conosceremo fino in fondo”.”

[Il Cefaloforo]

Il Gioco, i giochini e i passatempi sacri: attenti ai giochi tristi che fanno confondere!

In un passo delle Confessioni sant’Agostino ricorda dei suoi giorni di bambino, e rammenta le botte che si prendeva dai maestri perché preferiva il gioco della palla allo studio della grammatica e della retorica. Ammette che nel concreto avessero ragione nel richiamarlo, ma allo stesso tempo non può che riconoscere che quegli studi servivano normalmente agli studenti per prepararsi “a ben più tristi giochi”, ovvero quelli delle lotte in tribunale e nelle assemblee, ben lontani dal servire il bene comune e molto più appropriati al servizio della propria vanagloria e superbia.

Il gioco dei bambini in realtà non è affatto cosa di cui vergognarsi: nulla è più vicino alla beatitudine del gioco disinteressato e fine a se stesso che fanno i bambini, tanto che possono essere nostri modelli. Ma è pur vero che, crescendo, il gioco spesso si trasforma: da espressione naturale della gioia di vivere spesso diventa uno strumento di compensazione, con cui si regredisce allo stato infantile per sospendere le difficoltà della vita quotidiana e non affrontarle. Il gioco della vita si fa troppo duro e non riusciamo a goderne, perciò ci inventiamo i giochini, degli ozi che ci distolgano da ciò che saremmo chiamati a fare. Questo può avvenire in modo fisiologico (e quindi legittimo, perché non ostacola la nostra edificazione e ci permette di riposare) oppure patologico (dove il giochino diventa appunto un nascondiglio per non affrontare la vita), ma in ogni caso è testimonianza di un residuo di immaturità, che ci porta a sospendere la nostra vita in attività laterali perché non sappiamo goderne appieno.

Essendo noi esseri in evoluzione, e non essendo quindi ancora santi e perfetti, non c’è da stupirsi che abbiamo una parte di immaturità, né da farsene un cruccio: come dicevo, entro certi limiti è fisiologico e anche necessario per non essere spezzati da quegli aspetti della vita che facciamo naturalmente difficoltà ad affrontare. Bisogna però esserne consapevoli e aspirare ad integrare sempre di più anche gli aspetti immaturi della propria persona… Senza cadere in certi tranelli.

Un tranello in cui cadono spesso gli incipienti, ad esempio, è quello dell’ascesi immediata: queste persone scoprono all’improvviso i propri peccati e la propria immaturità, e vogliono abbandonare tutto altrettanto all’improvviso. Da un giorno all’altro decidono che non saranno più quelli di prima, e che saranno del tutto puri: non solo si allontaneranno giustamente da ciò che è male, ma anche ciò che è indifferente lo lasceranno stare, perché vogliono essere tutti del Signore.

Sia chiaro: è un’intenzione santa e buona. E tuttavia è estremamente frequente che queste persone, specie se molto giovani, cerchino di ottenere questo senza fare effettivamente i conti con la propria umanità. E abbandonano i loro giochini, per dedicarsi “a ben più tristi giochi”, più tristi ancora di quelli che ricordava Agostino: ciò che compensavano con i loro passatempi, imparano ben presto a compensarlo con le cose sacre. Lasciano il gioco della palla per giocare con le opere di bene, o le liturgie, o le penitenze. Continuano a non vivere una vita integrata, ma ricoprono di una patina di religiosità i loro piccoli e fisiologici egoismi.

Ma è come quando il demone viene scacciato via, e torna con altri sette demoni peggiori di lui: è una situazione di gran lunga peggiore della prima. Questo perché chi passa il tempo a collezionare tappi di bottiglia si rende benissimo conto che si tratta di una propria vanità, ma chi colleziona indulgenze parziali per la stessa ragione crede che questo lo santificherà, e a chi lo richiamasse ai suoi veri doveri, tenderà a rispondere piccato che si sta occupando delle cose del padre suo, come fosse il piccolo Gesù Cristo! Peggio ancora: svilirà le cose sacre riducendole a giochini, perdendo di vista la ragione per cui esistono e ci sono state donate, e piegherà la pietà ad un culto del proprio ventre, nella convinzione di aver abbandonato un uomo vecchio che in realtà rischia di ottenere una vittoria clamorosa.

Per questo nella vita spirituale è bene ricordare che la fretta è il peggior nemico, e che l’umiltà è la prima delle virtù: l’immaturità riconosciuta volge naturalmente verso la maturazione, quella dissimulata degenera nella corruzione. Perciò chi è ancora debole e ha bisogno di riposarsi spesso è bene che continui a giocare a palla, se questo lo aiuta a mantenersi sano: in ogni caso va evitato con ogni forza che quell’immaturità si infili nelle cose che diciamo di fare per amore di Dio, che non sono giochini ma mosse fondamentali del Gioco della vita eterna, che non vanno mai separate dal loro sommo fine.

Kenosi delle scarpe

Quando un bambino vi chiede di allacciargli le scarpe, è perché non lo sa fare. Soprattutto se non è più molto piccolo, per lui è umiliante, chiamandovi confessa la sua impotenza.

Alla sua frustrazione risponde però il fatto che per farlo dobbiate chinarvi: per un momento diventate piccoli e il bambino può guardarvi dall’alto in basso, il mondo si capovolge in quel piccolo servizio, e il bambino impara che essere più grandi non significa sempre vincere sui più piccoli, ma può significare poter dare quello che all’altro manca.

Ma non finisce qui, il servizio va più in profondità: ad alcuni potrebbe far piacere essere d’aiuto, e sono tentati di prolungare il più possibile la propria utilità, ci piace in fondo che gli altri abbiano bisogno di noi. Ma se volete bene a quel bambino, gli chiederete in realtà di chinarsi un po’, di guardare bene come si fa, di “mettere il dito” e di provare da solo appena vi sembrerà il momento. Non ci si abbassa infatti per rimanere ai piedi dell’altro, ma per avere un buon punto di presa per innalzarlo, per far sì che non debba più chiedere aiuto per cose che potrebbe effettivamente riuscire a fare.

Quando tutto questo sarà finito, il bambino non avrà soltanto imparato ad allacciarsi le scarpe: avrà imparato soprattutto che servire è da grandi e farsi servire da piccoli, e che avrà fatto una cosa “da grande” quando si sarà chinato verso il piede di qualcuno che non può dargli niente in cambio. L’iniziale abbassamento del suo orgoglio gli indicherà la via dell’abbassamento che eleva l’onore, e tutto questo perché non è stato lasciato ad abbassarsi da solo.