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L’arrivo di Anne – Il Cefaloforo

All’inizio non ci fecero caso, pensando che fosse qualche animale o qualche ramo sbattuto dal vento, ma si resero presto conto che si trattava di un suono che non sentivano da tanto tempo, e che ormai non si sarebbero più aspettati di udire.

Qualcuno stava bussando alla porta del piccolo eremo.

Zacharias agguantò Denis per le spalle e gli tappò la bocca il più in fretta che poté, ricevendo un’occhiata di disappunto. Thomas tremava. Annuì nervosamente e, guardando negli occhi il ragazzino, accennò un sorriso. Poi sussurrò.

“Presto, nascondetevi.”

Bussavano ancora.

Si prese tutto il tempo per avvicinarsi alla porta, non fece alcun rumore. Magari il visitatore si sarebbe stancato prima di ricevere una risposta. Magari era solo un picchio un po’ stordito. Si domandò se i piccoli corvi stessero bene.

Bussavano ancora. Ormai aveva la mano sulla porta. Gli prudeva tutto.

“C… Chi siete?”

Bussavano ancora.

Si guardò alle spalle. Non si vedevano, erano stati bravi. Tolse il paletto.

C’era silenzio.

Aprì lentamente la porta, l’aria fredda gli gelò il sudore sulle braccia e sul volto., ma subito si sentì bruciare per l’imbarazzo.

“Anne…?!”

La bambina stava ritta, immobile. Gli occhi erano fissi sui suoi, ma privi di vitalità. Aveva pianto.

“Che ci fai qui? E perché sei sola?”

“Anne!” Gridarono quasi all’unisono gli altri due, e galopparono fino alla porta. Quindi ammutolirono tutti insieme ad Anne.

Il primo a scrollarsi da quello stupore fu Denis, che sgusciò tra la porta e il corpo di Thomas per buttarsi in ginocchio davanti a lei. Chinò il capo, batté il pugno contro il petto e disse:

“Dominus, non sum dignu ut entret sub tectus meus, sed tanto dic verbum et sanabitum anima mea”

Per tre volte.

La stessa cosa fece Zacharias, rimanendo dentro, ovviamente scandendo correttamente le parole latine. Thomas guardò prima l’uno, poi l’altro. Come se si stesse chiedendo se fossero davvero lì.

“Thomas, il rituale.” sussurrò Zach “Pensavo volessi che continuassimo a fare come abbiamo sempre fatto.”

“Ma… Ma se… Facciamo… Significa che è successo qualcosa di brutto?”

Zach non poteva saperlo, per cui cercò dentro di sé quel briciolo di coraggio che gli rimaneva e tornò a scrutare gli occhi silenti della bambina. Era successo qualcosa di molto brutto.

“È colpa nostra…?” Biascicò. La bambina non mosse la testa. Forse mosse le labbra, ma non la testa.

“Lo sai come rispondiamo a questa domanda” lo fulminò Denis, pur senza muoversi dalla sua posizione. “Segui il rituale!”

“G… Giusto.” Si inginocchiò, ma senza staccare lo sguardo dagli occhi azzurri della bambina. Quindi prese fiato:

“Domine, non sum… Perdonami, Anne!” e singhiozzò. E pianse.

La bambina gli toccò i capelli, e lui si calmò. Tirò su col naso e chiese a Denis:

“Portala a prendere un bicchiere d’acqua.”

“Ma sta a te farlo! È il più anziano che lo deve fare.”

“Lo so. Ma tu meriti di farlo più di me, e sei già stato tu ad iniziare il rituale.”

“Ma io non so il latino…” protestò, sinceramente spaventato.

“Non importa, tanto non lo sa neanche lei. Il Signore non si arrabbia mica, e tu sai cosa significavano le formule.” E si scansò da davanti alla porta.

Denis annuì. Si alzò in piedi e fece ad Anne un grande sorriso, il migliore che potesse venirgli. Quindi le disse:

“La porta è aperta per te, entra pure. Poi se sei felice di essere qui devi dire: “Pace a questa casa e a chi vi abita.” Se sei arrabbiata perché sei qui devi dire invece: “Fino a quando griderò, o Signore, senza che tu mi ascolti?” Non ti preoccupare, vanno bene tutte e due le cose, e va bene anche se non vuoi entrare.” La precedette e le fece un inchino.

La bimba finalmente si mosse e varcò la soglia, quindi lo guardò senza dire niente.

Zacharias simulò un colpo di tosse:

“Lo sai che non parla…”

Denis arrossì.

“Basta che annuisci con la testa. Su e giù per la pace, sinistra e destra per il grido.”

Lei annuì. Thomas singhiozzò di nuovo, rumorosamente.

Allora Denis corse a riempire un bicchiere d’acqua dal secchio, e subito lo porse ad Anne, che lo strinse con entrambe le mani.

“Bevi, Anne. Tu porti Gesù in questa casa, e in cambio tutto quello che abbiamo è tuo, anche se a volte un bicchiere d’acqua è tutto quello che c’è. Beata te che hai sete di giu… No, era l’altra” vide che Zach gli sorrideva, e ridacchiò “Dovevo dire che grazie a te, noi non abbiamo più sete. Questo è il rituale dei nostri padri, quelli che sono morti… Guarda che puoi bere eh!”

Anne si portò il bicchiere alle labbra e bevve lentamente, quindi lo restituì a Denis, che subito lo posò a terra.

“Mi è venuto male, il rituale” brontolò “Se non hai capito… Adesso questa è casa tua, sei nostra sorella e per ognuno di noi sei più importante della stessa vita. E questo non lo dico perché era il rituale, ma perché è così. Qualsiasi cosa è successa, non sarai sola mai più.”

La abbracciò, e strinse forte. Poi si staccò e lasciò che Zach facesse lo stesso, ma Thomas non si mosse.

“Thomas…” lo chiamò Denis, sorpreso e preoccupato, Ma la bambina gli toccò la fronte con la mano e gli sorrise, poi corse di fuori. Si fermò davanti a Thomas, che ancora stava in ginocchio e aveva tutta la faccia bagnata di lacrime. Lo guardò bene e lo abbracciò. Nessuno riuscì più a dire una parola fino a sera.

[Il Cefaloforo]

La doppia vicarietà di Gesù Cristo: vicario di Caino, vicario di Abele

Non rappresentazione vittimaria ma nuovo Adamo, tutto in tutti

Perché Dio si è fatto uomo? Questo si chiedeva Sant’Anselmo quando arrivò a formulare la risposta che sintetizziamo oggi come “soddisfazione vicaria”, una risposta tanto razionalmente pregnante quanto esistenzialmente pericolosa: Cristo si sarebbe incarnato per soddisfare la giustizia divina, per pagare dunque il debito infinito che l’uomo aveva con Dio, debito che poteva pagare soltanto lui unendo in sé la realtà dell’uomo (che in quanto colpevole del peccato aveva un debito da pagare) e la realtà di Dio (che, solo, avrebbe potuto offrire un bene pari o superiore al male infinito rappresentato dal peccato).

Perché una tale formulazione era pericolosa? Perché di fatto risolve tutto tra Dio e Dio, l’uomo si vede sostituito da una persona divina nel risolvere il problema della colpa, e non gli rimane da fare altro che accettare la sostituzione oppure no, lasciare che Cristo paghi per lui oppure rimanere debitore: tutto si compie in Cristo, e noi veniamo in qualche modo passivizzati. Naturalmente Anselmo non voleva arrivare a questa conclusione, ma non fa meraviglia che da questo punto di partenza la teologia protestante abbia potuto formulare una cristologia della sostituzione penale, in cui Cristo subisce l’ira divina come massimo peccatore, cade disperato nell’oscurità della morte per pagare questo debito e ritrova la luce nella Risurrezione. Non fa meraviglia che altri riformatori abbiano poi esasperato la passività degli uomini rispetto al Dio-Uomo al punto da predicare l’esistenza di una predestinazione alla dannazione. Conseguenza ultima non poteva che essere la riduzione all’irrilevanza della fede: se la salvezza è qualcosa che Cristo ha risolto una volta per tutte pagando il debito, il resto è contorno.

Eppure credo che ci sia qualcosa di estremamente importante nell’idea di Anselmo, che non possiamo permetterci di perdere: l’idea che il problema della giustizia sia un problema serio, che la giustizia vada, insomma, soddisfatta. E che non sia in potere dell’uomo soddisfarla del tutto, che possa farlo, insomma, solo unendosi a Cristo sulla croce.

Ciò che è necessario integrare è però la consapevolezza che la giustizia non è qualcosa che riguarda esclusivamente i diritti di Dio: se è vero che il peccato è contro Dio e gli toglie quanto è dovuto, è anche vero che ciò che è dovuto a Dio è l’amore, e che l’amore non inizia con un atto verso Dio “che non vedi”, ma nell’amore “del fratello, che vedi”. Il peccato offende infinitamente Dio, è vero, ma si esprime principalmente nell’assenza dell’amore e della giustizia tra gli uomini. Ognuno di noi non deve quindi soddisfare soltanto Dio, ma anche riparare il rapporto con il suo fratello, riconciliarsi, soddisfare il grido che invoca giustizia davanti a Dio.

“Il sangue di tuo fratello grida a te dal suolo!” Così Dio mette Caino di fronte al proprio peccato. E troppo spesso non notiamo come le Scritture (e soprattutto i profeti) siano piene di questo genere di grida: il grido dell’orfano, della vedova, dello straniero accusano Israele e Giuda davanti a Dio e ne meritano l’esilio. Ma Dio stesso viene accusato da questo grido implicitamente (da Qohelet: “ecco le lacrime degli oppressi e non c’è chi li consoli; dalla parte degli oppressori sta la violenza e non c’è chi li consoli”) ed esplicitamente (nei salmi imprecatori, ma anche in Abacuc: “Fino a quando, Signore, implorerò e non ascolti, a te alzerò il grido: «Violenza!» e non soccorri?”). Perché Dio, se è davvero giusto, non colpisce Caino? Perché, se è veramente buono, non restituisce la vita a chi, come Abele, è morto innocente? Troppo spesso siamo tentati di liquidare questo problema rifugiandoci nel fatto che, in virtù del peccato originale, siamo tutti peccatori, eppure nelle Scritture il grido è forte e chiaro e la risposta non soddisfa: persino un bambino potrebbe dimostrarvi che non siamo tutti peccatori allo stesso modo. Anzi, soprattutto un bambino.

Il Peccato è la ragione per cui tutti quanti siamo votati alla morte. Ma davanti alla morte, molti di noi con onestà possono riconoscere di aver meritato con le proprie azioni un tale destino, di avere anzi da pagare un debito ancora più grande. Alcuni di noi, però, questo prezzo l’hanno pagato e lo pagano per il peccato altrui: non hanno avuto il tempo o la forza di peccare personalmente, e muoiono per la colpa dei loro padri. Riuscite davvero a biasimarli se diventano peccatori anch’essi ribellandosi alla morte ingiusta, gridando a questo Dio che non si è affrettato a salvarli da quel dolore irrazionale e ingiustificabile? È forse una bestemmia il grido di Giobbe? È una bestemmia il grido dell’orfano, il grido della vedova, il grido dello straniero calpestati dai grandi d’Israele che divorano le carni di sacrifici iniqui? La loro impazienza può essere equiparata alla malvagità di Caino?

Se il grido non fosse legittimo, Dio non l’avrebbe accolto, come invece ha farlo. Là dove non c’era niente di nuovo sotto il sole, è venuto a visitarci un sole che sorge. Là dove il cieco nato soffriva per le conseguenze cosmiche del Peccato, si è manifestata la gloria di Dio. Là dove l’oppresso accusava Dio di stare dalla parte del violento, Dio ha voluto soddisfarlo prendendo nella sua carne la sorte a cui avrebbe voluto condannare suo fratello. Là dove arrivava il grido del sangue di Abele, Cristo Sommo Sacerdote ha portato un sangue dalla voce più eloquente (e più innocente!) di quello di Abele: il proprio.

Nell’orto degli ulivi Gesù sperimenta nella sua carne la violenza dell’istinto di sopravvivenza, il dolore della prospettiva del tradimento e della morte violenta, la pesantezza del calice che il Padre gli ha dato da bere: capisce bene che non è desiderabile soffrire e morire senza averlo meritato! Piange come il bambino che subisce violenza, supplica il Padre di salvarlo dalla morte. Sale sulla croce come agnello condotto al macello, senza macchia, condividendo la sorte di tanti innocenti schiacciati dalla malizia di uomini più grandi di loro. E sulla croce dà voce al loro grido, si rivolge al Padre per avere giustizia, con loro grida! Ma ecco che nella sua carne divina il grido è trasfigurato, ecco che Abele vede con occhi nuovi il fratello Caino, ecco che l’accusa diventa un’apologia:

“Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno!”

Cristo è quindi vicario di Caino, perché paga il prezzo che Caino ha meritato; è tuttavia anche vicario di Abele, perché donandosi ad Abele rinuncia insieme a lui a quella riparazione di cui Caino non sarà mai capace, lo libera dall’attesa angosciosa di una giustizia che tarda ad arrivare, per donargli la gioia della riconciliazione, di un abbraccio eterno che riconcilia chi era morto nel corpo e chi era morto nell’anima.

In Cristo sulla croce, in Cristo risorto viene abbattuto il più duro dei muri di separazione: quello tra buoni e cattivi, quello tra vittime e carnefici. In Cristo nuovo Adamo, la perfetta comunione è l’esito di un doppio dono: quello del perdono e quello del saper perdonare.

E così sappiamo di essere peccatori, quando vediamo in trasparenza come l’offesa fatta al più piccolo dei nostri fratelli è un colpo inferto a Cristo, e nel suo sguardo docile ci scopriamo perdonati. E così sappiamo di essere innocenti, quando il colpo inferto alla nostra carne da qualcuno che non aveva alcun diritto di infliggerlo fa gridare l’Innocente nel nostro cuore: lo riconosciamo perché la giustizia che invoca è riconciliazione e perdono. Siamo davvero innocenti, perché guardando il Crocifisso siamo sicuri che chi può salvarci sa quanto fa male morire, e non ci lascia soli. Siamo davvero perdonati, perché quell’uomo crocifisso si è fatto carico non soltanto di placare la giustizia divina, ma di dare la gioia eterna al fratello che abbiamo offeso.

Abbiamo lavato le nostre vesti nel sangue dell’Agnello.

Impara a urlare prima – Il Cefaloforo

«Anne, vieni. Devo dirti delle cose che devi sentire solo tu.»

La bimba arrossì e sorrise. Gli occhi sottili di Denis non si scollavano nemmeno per un momento dai suoi, non le lasciavano scelta. Guardò verso la mamma, stava ancora facendo la sua predica a Thomas. Solo per qualche minuto poteva andare.

Annuì. Denis sorrise come il sole.

Si sedettero tra le radici di un grande albero, nascosti a qualsiasi sguardo. Denis respirava forte.

«Anne, tu sei piccola come me e quindi mi capisci. Anche se non parli. Non mi importa se parli, basta che ascolti e non ridi come fanno loro. Non devi pensare che scherzo. Se sei d’accordo stringimi il dito.»

Allungò l’indice verso di lei, senza girare la testa. Lei gli prese tutta la mano e la strinse tra le sue.

«Non sono bravo a giocare al cattivo, altrimenti non saresti venuta qui.» si schernì «Tu guardi bene negli occhi, lo so. Lo dice anche Zach. Sai che non sono cattivo. Ancora. È solo un gioco. Quindi se faccio cose strane è solo perché… Mi è venuto in mente di fare il cattivo con te. Di togliermi…»

Deglutì.

«Hai capito? Se hai capito stringimi la mano.»

Lei strinse la mano e sorrise. Lui la guardò con la coda dell’occhio. L’orecchio gli diventò rosso come il fuoco.

«Tu sorridi, vedi solo un bimbo sciocco ma… Non lo devo fare. Quello non è un gioco, è essere cattivo. E io non voglio essere cattivo. Ti ho chiesto di venire qui per dirti che se lo faccio devi metterti a urlare. Devi smetterla con questo gioco di stare zitta e chiedere che mi prendano a bastonate. Hai capito?»

Lei gli strinse la mano.

«Lo farai? Ti metterai a urlare?»

Strinse di nuovo.

«Ci credi che è solo un gioco, vero? Non dirai alla tua mamma quello che ti ho detto? Secondo te sono cattivo per davvero o per gioco?»

«Sei buono. Hai gli occhi buoni.» sussurrò lei. Denis sfilò via la mano e si coprì la testa col cappuccio.

«Grazie, Anne. Mi ricorderò per sempre la tua voce. Ma non devi guardarmi troppo. Sai cosa diceva il Padre? Che i giochi che uno fa, dicono chi diventerà. E se io gioco a fare il cattivo, vuol dire che diventerò cattivo. E quando divento cattivo tu devi scappare via, perché non voglio farti del male. Ma quando diventerò cattivo vorrò farti male. E allora tu scappi, e non ci pensi più a me. E anche se ho gli occhi buoni non importa. Va bene?»

Anne non rispose. Denis allungò la mano verso di lei, alla cieca. Le toccò quasi la faccia. Lei si sentì triste, ma poi le passò. Gli prese il polso e lo tirò finché lui non si girò. I suoi occhi erano buoni. Lo abbracciò. Gli baciò la guancia. Era calda.

«A… Anne… Stai giocando a fare la cattiva? Io… Voglio finire di parlare. Fammi parlare.»

Era così buffo. Teneva gli occhi chiusi per riprendere fiato.

«Io… Un giorno diventerò cattivo. Tu non lo sai, quindi non puoi dire di no, devi ascoltarmi. Tu dovrai scappare, andare lontano, aspettare finché non sarò morto. E quando sarò morto mi perdonerai. Mi perdonerai? Se sorridi mi perdonerai.»

Lo vide aprire gli occhi come una fessura. Brillavano. Li richiuse.

«Bisogna perdonare quelli che sono morti. Era la cosa che ti dovevo dire per forza, prima che non riesci più ad ascoltarmi. I miei genitori sono morti, io lo so.»

Riaprì gli occhi. Anne non riuscì più a sorridere e lo abbracciò.

«Non mi importa se sono stati buoni o cattivi. Se sono un figlio di puttana come Thomas, o se mi hanno buttato via perché pensavano che ero cattivo, come Zach. L’importante è soltanto che li perdono. Perché se io li perdono, anche Dio li perdona. E se Dio li perdona, allora giocheremo insieme in paradiso. Per questo ti volevo parlare, perché tu devi perdonare me, altrimenti non potrò giocare in paradiso con i miei genitori. Mi capisci?»

Lei lo strinse forte.

«Non dimenticarti di perdonarmi, ti prego. Non quando sarò morto. Non perdonare uno che è morto, è la cosa più cattiva che si possa fare. Io non sarò mai così tanto cattivo. Bisogna arrabbiarsi con quelli che fanno le cattiverie finché sono vivi, bisogna dire tutte le cose brutte che si pensano finché ti possono sentire. Ma poi bisogna perdonare, non dare fuoco ai morti. Lo capisci, vero? Tu che stai sempre zitta… Mettiti a urlare prima, e non dopo. Va bene? Dillo alla tua mamma. Fatti insegnare a urlare prima.»

[Il Cefaloforo]

Potrebbe essere un primo piano raffigurante persona e bambino