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La carità è distruttiva dello spazio pubblico

(“Filippica” in obbedienza a Claudio Valisi, a commento di Arendt e Machiavelli)

“La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato. Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto.

Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!” (1Cor 13, 8-13)

Hanna Arendt ha ragione ad affermare, con Machiavelli, che la carità è distruttiva dello spazio pubblico, perché lo spazio pubblico è luogo delle cose immortali, luogo di eroi, di gesta e di discorsi che cercano di resistere al logorio del tempo, mentre la carità è il luogo dell’eterno, di un presente che trascende la Storia e ne mostra la vanità. Così è vero che la pratica della carità, di un amore disinteressato e nascosto, che non si gloria e non si vanta, non si gonfia e non tiene conto del male ricevuto è capace di mandare in cortocircuito il sistema della Città, in cui il libero cittadino dovrebbe ergersi sopra gli altri per lasciare il proprio nome sulla roccia, per spiegare le vele verso un destino, una storia degna di essere raccontata e ricordata in eterno. E questa è una grazia.

Lo è perché le promesse della vita pubblica sono realmente vacue: nessuna immortalità è davvero immortale, e non solo perché i grandi uomini muoiono, ma perché i loro discendenti, i loro cittadini dimenticano, e tutto sembra destinato a cadere in un oblio di silenzio, molto più spaventoso della morte stessa. “Eppure hanno dato il loro nome alla terra” (Sal 48, 12)

È dunque una distinzione effimera quella che contrapponeva, nel mondo classico, cittadini e schiavi: i primi avevano gli occhi in fronte e decidevano il proprio destino, i secondi camminavano nel buio delle occupazioni necessarie alla sopravvivenza di tutti, ma ad entrambi aspettava la stessa sorte, entrambi sono come gli animali che periscono, e il loro spirito non si sa dove vada. Che la città serva alle grandi gesta, dunque, è molto dubbio: la morte le rende fini a se stesse, il fatto che Atene possa perdere la sua libertà rende persino la vita del filosofo fine a se stessa. Quando si giunge a questa consapevolezza cosa si intravede, dunque?

La violenza.

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Il bambino come invenzione moderna – Ivan Illich

“Noi ci siamo ormai abituati ai bambini. Abbiamo deciso che devono andare a scuola, fare ciò che gli si dice e non avere né un reddito personale né una propria famiglia. Ci aspettiamo che sappiano qual è il loro posto e che si comportino come bambini. Ci ricordiamo, con nostalgia o con amarezza, di quando eravamo bambini anche noi e siamo tenuti a tollerare il comportamento infantile dei bambini. Il compito di provvedere a loro è proprio del genere umano. Dimentichiamo, così, che la nostra particolare concezione della “fanciullezza” si è formata solo da poco tempo nell’Europa occidentale, e in epoca ancora più recente nelle Americhe.

La fanciullezza come momento diverso dall’infanzia, dall’adolescenza, dalla gioventù, era ignota a quasi tutti i periodi storici. In certi secoli dell’era cristiana non ci si rendeva neppure conto delle sue proporzioni fisiche: gli artisti dipingevano il bambino come un adulto in miniatura in braccio alla madre. I bambini comparvero in Europa contemporaneamente all’orologio da tasca e agli usurai cristiani del Rinascimento. E fino al nostro secolo né poveri né ricchi avevano mai sentito parlare di vestiti per bambini, di giochi per bambini o dell’immunità del bambino di fronte alla legge. il concetto di fanciullezza è proprio della borghesia. Il figlio dell’artigiano, del contadino o del nobile vestiva come suo padre, faceva i suoi stessi giochi e rischiava nella stessa maniera l’impiccagione. Ma da quando la borghesia ha scoperto la “fanciullezza” è cambiato tutto. Solo alcune chiese continuarono per qualche tempo a rispettare la dignità e la maturità del giovanissimo: nella Chiesa Cattolica, fino al Concilio Vaticano II, s’insegnava a ogni bambino che un cristiano perviene al discernimento morale e al libero arbitrio a sette anni e che da quel momento egli è in grado di commettere peccati per i quali può essere punito all’Inferno per l’eternità. Verso la metà di questo secolo le famiglie borghesi hanno cominciato a cercare di proteggere i propri bambini dal peso di questa dottrina, e sono le loro idee sulla fanciullezza che determinano oggi il comportamento pratico della chiesa.

Fino al secolo scorso i “bambini” della borghesia si formavano in casa, con l’aiuto di precettori e discuole private. Solo con l’avvento della società industriale divenne possibile e fu messa alla portata delle masse la produzione in serie della “fanciullezza”. Il sistema scolastico è un fenomento moderno come la fanciullezza da esso prodotta.

Ma poiché la maggior parte delle persone non vive nelle città industriali, ancora oggi i più non sanno per esperienza diretta cosa sia la fanciullezza. Sulle Ande, una volta che sei diventato “utile”, cominci subito a coltivare la terra. E prima devi far la guardia alle pecore. Utile lo diventi a undici anni se ti hanno nutrito bene, o altrimenti a dodici. Parlavo di recente con il mio guardiano notturno, Marcos, di un suo figlio undicenne che lavora in una bottega di barbiere. Gli feci notare in spagnolo che era ancora un niño. E lui, sorpreso, rispose con un disarmante sorriso: “Credo che lei abbia ragione, don Ivan”. Rendendomi conto che, prima di quella frase, per Marcos il ragazzo era stato soprattutto un “figlio”, mi sentii in colpa per aver tirato la tenda della fanciullezza tra due persone sensibili. Naturalmente se avessi detto a un uomo che vive nei quartieri poveri di New York che suo figlio, benché vada a lavorare, è ancora un “bambino”, non lo avrei sorpreso. Egli sa perfettamente che a un ragazzo di undici anni dovrebbero essere concessi i privilegi della fanciullezza e soffre perché suo figlio non ne gode. Il rampollo di Marcos non è ancora afflitto dall’aspirazione alla condizione di bambino, quello del nuovaiorchese si sente frustrato.

La maggior parte della popolazione mondiale, dunque, non vuole o non può assicurare ai propri figli il moderno diritto alla fanciullezza. Sembra però che esso sia un peso anche per molti bambini della minoranza che gode di questo privilegio. Parecchi di loro sono soltanto costretti a subirlo e non sono per niente soddisfatti di svolgere il ruolo del bambino. Crescere nella condizione di bamibno significa essere condannati a un conflitto disumano tra la propria coscienza di sé e il ruolo imposto da una società che sta attraversando la propria età scolare. (…)

Se non esistessero istituzioni didattiche destinate a specifiche età e obbligatorie, la “fanciullezza” sparirebbe dalla circolazione. I giovani delle nazioni ricche sarebbero liberati dalla sua distruttività, e i paesi poveri cesserebbero di cercar d’imitare la fanciullaggine di quelli ricchi. Se si vuole che la società superi la fase della fanciullezza, bisogna ch’essa sia tale che i giovani possano viverci. Non può più restare in piedi l’attuale distacco tra una società adulta che si spaccia per umana e un ambiente scolastico che è una parodia della realtà. La fine della scuola come istituzione potrebbe anche porre termine alla discriminazione che attualmente opera contro gli infanti, gli adulti e i vecchi, e a favore degli adolescenti e dei giovani. La decisione della soceità di destinare le risorse didattiche disponibili soprattutto a quei cittadini che si sono lasciati alle spalle la straordinaria capacità di apprendere propria dei primi quattro anni di vita e non hanno ancora maturato appieno un’autonoma volontà d’imparare, apparirà probabilmente assurda ai nostri posteri.

La sapienza istituzionale ci dice che i bambini hanno bisogno della scuola. La sapienza istituzionale ci dice che i bambini impararano a scuola. Ma questa sapienza istituzionale è a sua volta un prodotto della scuola, perché il sano buonsenso ci fa notare che nella scuola si può insegnare soltanto ai bambini. Solo segregando degli esseri umani nella categoria della fanciullezza è possibile assoggettarli all’autorità di un insegnante.”

[I. Illich, Descolarizzare la società]

Addio Feisbuk (eddue)

Ecco, quindi… torno a parlare… beh… di…

 

Sì, ok, prendetemi in giro, mandatemi a quel paese, dite quello che vi pare.

Dite pure che non ci credete, che non lo farò davvero.

Forse avete ragione.

 

Ma adesso che l’hai detto, taci e non rompere le palle.

 

Mi fa male l’indice della mano destra, sono un coglione e ho tagliato troppo l’unghia, quindi mi fa male, quindi non scriverò molto, ok? Solo qualche parola.

Facebook mi ha rotto il cazzo.  Leggi il resto di questa voce